Sicurezza internazionale: tre proposte di legge sui contractor attendono di essere discusse alle Camere

Articolo pubblicato su Report Difesa il 14/07/2021

Fino a un po’ di tempo fa erano chiamati mercenari, un termine certamente poco gradito dagli stessi e che, ormai, è usato sempre meno. Oggi li conosciamo come contractor e, ad essere onesti, questa qualifica non sempre rassicura chi ne sente parlare. Nell’immaginario, o anche nel reale, il contractor è un uomo che il più delle volte ha già avuto un’esperienza nelle forze armate e che si arruola per svolgere servizi di sicurezza per conto di società private in aree di crisi o, in alcuni casi, per combattere, magari al fianco di qualche forza armata, spesso attratto da guadagni che possono raggiungere anche decine di migliaia di euro al giorno e che non si farebbe troppi problemi a premere il grilletto, tanto: “non è tenuto a rispettare alcun codice militare”. Nel nostro Paese tutto ciò è impensabile. O meglio, non è legale. Tanto che diverse società di sicurezza privata hanno sedi legali in Paesi esteri, anche se spesso a gestirle sono italiani e magari anche ex militari delle forze speciali. Verrebbe da pensare, quindi, che siano formati in un certo modo, seguendo un addestramento militare rigoroso, imparando a maneggiare le armi come veri e propri soldati. Ma sui dettagli del loro addestramento si sa ben poco. Sappiamo, però, che questi ‘professionisti della sicurezza privata’ vengono spesso impiegati dai colossi delle associazioni di armatori italiani su navi mercantili battenti bandiera italiana con il compito di tutelare l’imbarcazione, il suo equipaggio e, non da ultimo, la merce trasportata in acque internazionali. Ad oggi, queste attività, compresa la modalità di detenzione e di trasporto delle armi sia a bordo della nave sia a terra, sono state regolamentate dal decreto del Ministro dell’interno 28 dicembre 2012, n. 266, sostituito poi dal regolamento di cui al decreto 7 novembre 2019, n. 139. Le leggi in vigore oggi in Italia si limitano, quindi, all’attività dei professionisti della sicurezza privata, o guardie giurate, all’interno dei confini nazionali e, infatti, le navi sono considerate territorio nazionale. La normativa sulla sicurezza privata nel nostro Paese è, in effetti, alquanto datata. Il riferimento è al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del regio decreto n. 773 del 1931.Resta, quindi, il nodo della legalità di questa attività oltre i confini nazionali. Non sono pochi i casi in cui le società di sicurezza privata sono state ingaggiate da committenti italiani, come aziende multinazionali di idrocarburi, per la sorveglianza di impianti petroliferi, giacimenti ed edifici in aree di crisi.Ad oggi, non c’è una legge che disciplina l’attività delle guardie giurate all’estero. Ci sono, tuttavia, tre proposte di legge depositate in Parlamento da altrettante forze politiche e che attendono di essere discusse nella aule di Camera e Senato. I tempi sono ancora incerti e legati, in particolare, alla I commissione affari costituzionali della Camera, essendo materia di competenza anche del Ministero dell’interno. In ordine cronologico, la prima, che risale a novembre 2018, è stata presentata da Fratelli d’Italia, firmatari i deputati Lollobrigida, Deidda e Ferro. La seconda è stata presentata dalla Lega a maggio 2019 e a ottobre 2020 è arrivata anche la proposta del Partito Democratico, a firma Pagani, Fassino e Miceli. Le tre proposte sono, in linea di massima, molto simili tra loro.Nella prima proposta di legge depositata alla Camera dei deputati da Fratelli D’Italia, si fa leva sulla motivazione legata alla lotta al terrorismo internazionale (tema che sicuramente nel 2018 preoccupava molto di più, prima che scoppiasse la pandemia da Covid 19) e, quindi, all’aumento esponenziale dei rischi legati alla sicurezza per le imprese che operano all’estero nei settori dell’energia, telecomunicazioni e trasporto. In questi contesti, la sicurezza è affidata alle forze di polizia locali, ma spesso non è sufficiente e, in alcuni casi, si sono verificati casi di corruzione, complicità e connivenza con i terroristi. Elementi che hanno portato le aziende a optare per la privatizzazione della sicurezza all’estero: le Private military security companies (PMSCs), americane, britanniche, francesi, israeliane, russe e sudafricane, che affiancano (o, in alcuni casi, sostituiscono) le Forze armate e di sicurezza governative internazionali e locali. Non ci sono società italiane che fanno questo tipo di servizio, in quanto, appunto, la nostra legislazione non lo prevede, mentre altri Paesi prevedono la figura del security contractor quando si trovano in contesti ad alto rischio. Sono definiti “maturi i tempi affinché sia permesso agli stessi istituti di vigilanza di consentire a imprese pubbliche e private italiane che operano in settori strategici in aree estere, dove la sicurezza non può essere garantita con lo strumento militare, di provvedere alla propria sicurezza con risorse nazionali”, è specificato nella proposta di legge. L’impiego del personale italiano – precisa ancora la proposta di legge di FdI – costituirebbe una maggiore garanzia di controllo dei flussi informativi, aspetto non trascurabile per la protezione delle politiche e degli asset aziendali rispetto all’impiego di personale straniero. Ad ogni modo, “l’esternalizzazione dell’attività di sicurezza dovrebbe riguardare esclusivamente attività accessorie rispetto a quelle svolte dai militari”, spiegano nella pdl i parlamentari di Fratelli d’Italia – come ad esempio l’impiego al livello operativo di consulenza e supporto, “nel rispetto dei principi costituzionali che tutelano i monopoli dello Stato sull’uso della forza”.Sulla stessa linea è la proposta della Lega, in cui si ricorda anche il drammatico episodio del sequestro di quattro tecnici della Bonatti nel 2015 in Libia, due dei quali persero la vita proprio durante il blitz per liberarli. Di qui, viene ribadita l’importanza per le imprese strategiche che operano all’estero, in aree a rischio, di poter disporre di un “circuito virtuoso” a salvaguardia dell’incolumità del personale che vi opera e per evitare ripercussioni socio-economiche sul nostro Paese e sugli investimenti delle imprese italiane all’estero. In più, la pdl della Lega introduce anche il tema della sicurezza del personale nelle nostre ambasciate all’estero, la cui protezione, ad oggi, è di competenza del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, attraverso la vigilanza e la scorta armata affidate al personale dell’Arma dei carabinieri “intendendo tale attività come una parte integrante dell’attività diplomatica e che, quindi, rientra tra le attività sovrane dello Stato”. Ma, anche nel caso delle ambasciate, la normativa italiana vieta ad agenzie di sicurezza di operare in Paesi a rischio con personale armato privato o alle imprese di utilizzare team di protezione propri.Il mercato mondiale della sicurezza all’estero ha visto un notevole incremento negli ultimi anni, fino a raggiungere un volume di affari che si aggira intorno ai 250 miliardi di dollari. In queste cifre, la Lega vede anche un potenziale margine di ritorno economico per il nostro Paese, perché se le aziende straniere verranno sostituite da istituti di vigilanza italiani sarebbe garantito il pagamento delle imposte all’erario nazionale e “la possibilità di contrarre le spese militari e quindi il numero delle nostre forze armate, impiegando molti ex militari, già formati a spese dei contribuenti, che al termine della loro carriera in divisa si trovano in difficoltà a ricollocarsi nel mondo del lavoro”, è specificato nel testo.

Un operatore di scorta

Ma come funziona il delicato quanto complicato rapporto con il diritto internazionale? Come ricordano i parlamentari del Partito Democratico nella proposta di legge, l’Italia ha aderito, il 15 giugno 2009, al Documento di Montreaux: il primo documento internazionale che ribadisce gli obblighi in materia di diritto internazionale per gli Stati, con particolare riferimento alle attività delle società militari e delle imprese di sicurezza private. C’è, poi, non meno importante, il Codice di condotta internazionale per la fornitura responsabile di servizi di sicurezza privata (International Code of Conduction for Private Security Service Providers), che definisce parametri e principi professionali basati sul rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Il Codice richiede alle società aderenti di rispettare i diritti umani e il diritto internazionale umanitario nel fornire servizi di sicurezza privata in aree in cui lo stato di diritto è fragile. “E’ auspicabile” – recita la pdl del PD – “che anche l’Italia aderisca a questo importante Codice e si adoperi al livello dell’UE affinché lo facciano anche altri Stati membri”. Ad oggi, gli unici Paesi ad averlo sottoscritto sono la Svezia e il Regno Unito.Tutte e tre le proposte di legge includono una definizione e il regolamento dei requisiti richiesti alle guardie giurate per poter svolgere attività di protezione in territorio estero, la disciplina sull’uso delle armi, il tipo di armamento che potrà essere utilizzato e le modalità di comunicazione tra gli istituti di vigilanza e le autorità estere e nazionali. Nella pdl del PD si parla, inoltre, nell’art. 6, della Giurisdizione, specificando che “l’impiego dei servizi di sicurezza privata è consentito previa sottoscrizione di accordi con il Paese ospitante sul riconoscimento della giurisdizione nazionale nei casi in cui si renda necessario perseguire comportamenti ritenuti illeciti o penalmente rilevanti”. Il che non è secondario, anche al fine di evitare lunghe crisi diplomatiche. Si veda il caso dei due marò italiani.“In nessun caso” – recita sempre lo stesso articolo – “può venir meno l’obbligo dell’azione penale da parte dello Stato italiano”. Sempre la proposta del PD include un articolo che regola il coordinamento con le autorità militari all’estero, specificando che le imprese di sicurezza privata devono coordinarsi con le autorità militari italiane presenti in loco, indicando i servizi svolti, e che sono escluse le attività svolte a sostegno diretto o indiretto di operazioni militari, che restano di esclusiva competenza delle Forze armate italiane.Tuttavia, nessuna delle proposte dei tre partiti regolamenta, e men che meno, accenna alla formazione o all’addestramento di queste figure deputate alla difesa e alla sicurezza di persone, mezzi, strutture, in aree critiche. Un aspetto di non poco conto se si vuole garantire la sicurezza di tutti, in primis delle stesse guardie giurate.

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Governo, Conte affida a Benassi la delega ai servizi

Su proposta del premier Giuseppe Conte, il Cdm ha nominato Pietro Benassi sottosegretario alla presidenza del Consiglio affidandogli la delega ai servizi.

Benassi, romano, 63 anni, è stato ambasciatore a Berlino fino a giugno del 2018, prima di essere chiamato a Palazzo Chigi dal premier Giuseppe Conte come suo consigliere diplomatico.

 “Il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Giuseppe Conte, ha deliberato la nomina dell’Ambasciatore Pietro Benassi a Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Al Sottosegretario Pietro Benassi saranno delegate, ai sensi dell’articolo 3 della legge 3 agosto 2007, n. 124, le funzioni attribuite al Presidente del Consiglio in materia di sicurezza della Repubblica”, si legge nella nota di Palazzo Chigi diramata al termine del Cdm.

Servizi, Conte cede la delega. Le prime indiscrezioni

“Viste le nuove sfide e anche gli impegni internazionali, non intendo mantenere la delega all’agricoltura se non lo stretto necessario e mi avvarrò anche della facoltà di designare un’autorità delegata per l’intelligence di mia fiducia”. A parlare è il presidente del consiglio dei ministri, Giuseppe Conte, intervenendo nella mattinata di oggi nell’Aula di Montecitorio. Dopo due anni di polemiche sulla questione (da parte soprattutto di Matteo Renzi), da quando cioè Conte detiene la delega sui servizi segreti, quest’ultimo pare aver ceduto alle pressioni. Pare. Perché, come lui stesso ha anticipato, la delega andrà a una persona di sua fiducia. Si tratterà quindi di una delega proforma? L’Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, stando alla legge (l. 3 agosto 2007, n. 124), può essere delegata dal presidente del consiglio dei ministri a un ministro senza portafoglio, a un sottosegretario di stato alla presidenza del consiglio. Non è improbabile, quindi, che la persona designata da Conte possa essere una figura completamente estranea ai partiti, ma molto vicina al presidente del consiglio. Il nome che circola nelle ultime ore è quello di Riccardo Chieppa, ad oggi segretario generale della presidenza del Consiglio dei Ministri. Classe 1966, Chieppa è un magistrato, già segretario generale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e Presidente di sezione del Consiglio di Stato. Che attinenze ci sono  tra Roberto Chieppa e i servizi di intelligence? A quanto sembrerebbe, nulla.

Sindacati militari, ok della Camera alla proposta di legge ‘Corda’ tra gioie e dolori. I sindacati: “smascheratevi!”

L’On. Emanuela Corda interviene in aula nel corso delle votazioni sulla proposta di legge

Di Maria Enrica Rubino

Dopo più di due anni dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 120/2018, che ha abrogato il divieto per i militari di riunirsi in sindacati, nella serata di ieri la Camera dei deputati ha approvato la proposta di legge n. 875-A/R, “Norme sull’esercizio della libertà sindacale del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia a ordinamento militare, nonché delega al Governo per il coordinamento normativo”, a prima firma dell’on. Emanuela Corda. Una proposta di legge che ha visto un iter decisamente lungo e travagliato, in cui non sono mancati gli appelli da parte delle varie sigle sindacali e le richieste, a gran voce, di revisione e aggiustamenti di alcuni punti della pdl. Richieste, in alcuni casi arginate o, addirittura, ignorate. Le votazioni in aula alla Camera sulla pdl, che nei prossimi giorni (con molta probabilità in autunno) dovrà essere votata in senato, hanno occupato gran parte della giornata dei lavori. Al termine delle votazioni conclusive del testo di legge, l’on. Corda ha rivolto una serie di ringraziamenti a “tutti coloro che hanno lavorato a questa proposta di legge, maggioranza e opposizione”, dicendosi “orgogliosa” di essere stata la prima firmataria della legge e di aver potuto svolgere anche il ruolo “super partes di relatrice”. La deputata del M5S ha definito anche la legge “un passo avanti importante perché un diritto sia finalmente riconosciuto appieno e possa essere esercitato nel migliore dei modi”. Soddisfazione è stata espressa anche dal presidente della IV commissione Difesa, Gianluca Rizzo, il quale ha definito il testo “figlio di diverse visioni, pur sintetizzandosi nei dettami della sentenza della Corte Costituzionale che ha confermato l’orientamento di una visione permeata nella professionalità dei nostri militari” e rivolgendo  un pensiero particolare a tutte le donne e gli uomini che indossano una divisa con le stellette, a tutti coloro che, con passione, dedizione e amore per la patria, rendono l’Italia un Paese sicuro e sicuramente amato nel mondo.

Numerosi gli emendamenti bocciati dall’aula, di cui molti a firma dell’on. Salvatore Deidda (FDI), sui quali il governo ha espresso parere contrario. Cinque gli emendamenti approvati: il 9.300 della Commissione, il 9.500, il 16.500, il 17.300, il 18.500.

I primi commenti a caldo delle sigle sindacali non sono stati positivi. In una nota stampa diffusa nelle scorse ore, il sindacato U.S.M.I.A. ha accennato a “istanze inascoltate” dal governo e che erano state presentate dalla Rappresentanza militare e dalle Associazioni professionali a carattere sindacale. “Moltissimi i dubbi e le incertezze per questa legge” continua la nota. “ In primis, avremo una rappresentanza privata, pagata dai militari, depotenziata rispetto all’attuale COCER e, dunque, con meno prerogative per la tutela dei diritti del personale. Dopo circa 40 anni di attività, si imponeva certamente il rinnovamento dello statuto della Rappresentanza, attraverso una riforma efficace e moderna che risultasse effettivamente al passo con i tempi in cui viviamo. È tuttavia intervenuto, oggi, a distanza di ben sei anni dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la sofferta pdl 875 che riteniamo insufficiente a garantire idonee risposte a quei militari che per 24 ore al giorno e per 365 giorni all’anno, compiono con abnegazione il proprio lavoro, tra molteplici difficoltà, economiche, logistiche, amministrative e operative”. E, in chiusura del comunicato stampa, un appello rivolto ai senatori: “USMIA confida in sostanziali modifiche del provvedimento a cura dei Senatori della Repubblica, nel prosieguo dell’iter parlamentare”.

“Questa legge, inutile nasconderlo, ha dei vulnus, alcuni dei quali piuttosto gravi” è uno dei commenti alla proposta di legge, pubblicato dal sindacato SIULM sulla pagina Facebook. “Lo snodo cruciale” – spiega il SIULM nel post – “sta nel COME la legge approvata alla Camera consentirà di agire a tutela del personale.

“Stante l’articolato attuale votato ieri alla Camera” – spiega il SIULM – “con questa legge i Sindacati Militari :

– Avranno potere di contrattazione PIENA sui rinnovi contrattuali (NON LA PSEUDOCONCERTAZIONE precedente) ;
– Verranno ascoltati su tutte le leggi di interesse del comparto da Commissioni, vertici e ministri di riferimento ;
– Tutelano in modo esclusivo su salute e benessere del personale in modo omnicomprensivo (si pensi a questioni Uranio e vaccinazioni) ;
– Vigilano su applicazione delle norme contrattuali, su risorse accessorie e straordinari;
– Sono completamente autonomi e sganciati da emanazioni gerarchiche;
– Promuovono tutela individuale e collettiva.
Inoltre, giusto per ricordarlo, con l’entrata in vigore della legge termina finalmente l’esperienza in taluni casi devastante e squallida (vds inchieste in corso) della rapp.za militare, tanto costosa quanto inutile.

Ovviamente anche questa legge, inutile nasconderlo” – prosegue la nota – “ha dei vulnus, alcuni dei quali piuttosto gravi. E’ infatti impensabile, e lo ribadiamo da sempre, che si debba adire il TAR anziché il giudice del lavoro per questioni di condotta antisindacale. Prendiamo atto che la politica, incapace di trovare una quadra sul punto, abbia deciso ancora una volta di abdicare a qualche futura (inevitabile) sentenza di legittimità. Transeat. Anche in questo caso, ieri abbiamo visto politici in mascherina… smascherarsi da soli!”, conclude il SIULM.

Sindacati militari: “su sistema previdenziale ci aspettiamo risposte tempestive dalle istituzioni”

Chiedono risposte tempestive da parte delle istituzioni e della politica: “chi ha la responsabilità delle decisioni non si trinceri dietro il silenzio spingendo i diretti interessati a far valere i propri diritti attingendo ancora una volta dalle proprie tasche e affidandosi a tortuosi, complessi e incerti, presumibilmente inutili, percorsi giudiziari”. Lo scrivono in comunicato stampa congiunto le sigle delle associazioni sindacali delle Forze Armate appartenenti a USMIA, che raggruppa personale dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica, Carabinieri e Polizia.

La questione viene sollevata dopo una recente sentenza della Corte dei Conti, che riporta l’attenzione sulla problematica della situazione contributiva di militari e poliziotti a circa 20 anni dalla riforma “Dini”. La sentenza della Corte, Sezione giurisdizionale della Regione Puglia, si è espressa in materia di risarcimento danni a un militare che aveva presentato un ricorso in seguito alla mancata attivazione, dopo oltre 20 anni dall’entrata in vigore della riforma “Dini” del 1995 (L. 335/95), del cosiddetto “secondo pilastro”.  Si tratta dell’istituzione di fondi “negoziali” utili a integrare la pensione erogata dall’organismo di previdenza pubblica obbligatoria (c.d. primo pilastro), consentendo al personale del comparto Difesa e Sicurezza, in regime di sistema previdenziale misto e, ancor di più, per coloro che tra alcuni anni saranno avviati in quiescenza con un sistema previdenziale interamente contributivo, di poter usufruire di un trattamento economico dignitoso, necessariamente dovuto al termine di una lunga vita lavorativa usurante e disagiata. Come si specifica nella nota stampa diffusa nei giorni scorsi, il sindacato USMIA ha posto da subito la questione previdenziale tra le priorità dell’attività sindacale. E, adesso, ci si aspetta un passo decisivo da parte del Governo con un intervento legislativo.

“Ci risulta che la questione sia già stata posta, da tempo, all’attenzione dei rispettivi Ministeri della Difesa e dell’Interno con proposte di legge che contemplano soluzioni ad ampio spetto, in grado di intervenire attraverso immediate forme di compensazione a carattere transitorio; l’adeguamento dei coefficienti di trasformazione per il calcolo della quota contributiva, da rapportare all’età ordinamentale di cessazione dal servizio prevista per le Forze Armate e per le Forze di Polizia; l’immediata attivazione di fondi chiusi, opportunamente garantiti ed al riparo da azioni speculative” scrive l’USMIA nel comunicato.

L’operazione di previdenza complementare per il pubblico impiego, infatti, non è mai partita e richiederebbe, per poter essere attuata, uno stanziamento di miliardi di euro. Occorrerebbe una legge finanziaria che stabilisca non soltanto quale cifra stanziare, ma anche le modalità, ad integrare quindi la legge “Dini”.   

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